Otium
Il termine ozio (derivato dal latino otium) genericamente si riferisce a ciò che caratterizza un lasso di tempo, più o meno lungo, durante il quale, occasionalmente o abitualmente, per carattere, per libera scelta o per costrizione, non si svolga nessuna attività particolarmente profittevole come può accadere che si presenti nel caso del cosiddetto "dolce far niente" inteso come « uno stato di ozio felice e spensierato »
Dapprima furono i Greci a celebrare l'ozio, collegandolo soprattutto alle classi aristocratiche e dominanti. « I Greci nell'epoca del loro splendore non avevano che disprezzo per il lavoro, solo agli schiavi era permesso di lavorare: l'uomo libero conosceva esclusivamente gli esercizi ginnici e i giochi dello spirito. Era questa l'epoca in cui si viveva e si respirava in mezzo a un popolo di Aristoteli, di Fidia, di Aristofani; erano questi i tempi in cui un pugno di valorosi travolgeva a Maratona le orde di quell'Asia che di lì a non molto Alessandro avrebbe conquistato. I filosofi dell'antichità insegnavano il disprezzo per il lavoro, degradazione dell'uomo libero; i poeti cantavano l'ozio, dono degli dèi: «O Meliboe, deus nobis haec otia fecit» (« O Melibeo, quest'ozio è il dono di un dio » (Virgilio, Bucoliche) »
Erano esclusi da questo privilegio, innanzitutto gli stranieri o i membri delle classi subalterne. Le persone dedite ai lavori manuali, come gli artigiani, non erano ben considerate in quanto scarsamente dedite all'ozio, che era alimentato dalla partecipazione alle attività teatrali, sportive o politiche. Il termine ozio era espresso dai Greci con la parola s???? (schol?) che, secondo un'interpretazione etimologica, significava inizialmente "tempo libero" per cui l'ozio indicherebbe il possedere del tempo da usare in attività disinteressate come lo studio con senz'altro fine che la conoscenza o la contemplazione intima di se stessi
Nell'antichità romana il termine indicava un periodo di tempo libero dagli affari (negotia) pubblici o politici in cui ci si poteva dedicare a un'occupazione che riguardasse lo studio (otium litteratum) o il soddisfacimento degli propri impegni domestici o della cura del proprio patrimonio.Di conseguenza lo schiavo, che per definizione era uno instrumentum vocale, non poteva essere ozioso in quanto destinato solo all'azione produttiva materiale.
Per Catone il vecchio (234-149 a.C.), al quale viene attribuito il detto « l'ozio è il padre dei vizi » , l'otium è la migliore espressione delle antiche virtù romane, l'operosità, in primo luogo, incarnate dal mos maiorum. Catone infatti, che avrebbe voluto che il foro fosse lastricato di pietre aguzze per non far sostare i passanti romani a chiacchierare pigramente come fanno a dismisura i greci, è convinto che ? « Dagli uomini grandi ci si aspetta che sia grande non solo il loro modo di esercitare negotia, ma anche quello di comportarsi negli otia. »
A parere di Catone dunque, si può essere grandi non solo nel fare ma anche nell'otium. Un insegnamento questo accolto da Cicerone che confrontava il suo otium con quello di Cassio Longino: infatti, mentre questo impiegava il suo tempo libero nel leggere orazioni, c'era qualcuno più grande di lui che, come affermava orgogliosamente Cicerone, impegnava il suo otium a scriverle: « tu dici che, quando sei otiosus, leggi delle orazioni: allora sappi che io, quando sono in otium, le orazioni le scrivo »
La tormentata età di Cesare, attraversata dai gravi eventi politici, è segnata dalla comparsa di alcuni grandi letterati come Gaio Valerio Catullo (84 a.C.-54 a.C), Tito Lucrezio Caro (94 a.C.-50 a.C.), Cicerone che esprimono nelle loro opere la disillusione dei loro progetti politici. Catullo e Lucrezio contribuiscono a creare la nuova figura dell'intellettuale che rifiuta l'impegno politico e si isola, dedicandosi interamente alla letteratura. Catullo profonde il suo otium nella poesia amorosa, come era ora intesa dai neoteroi, gli emuli dei raffinati lirici alessandrini. Lucrezio, dopo la crisi dei valori sociali romani, si isola nell'individualismo epicureo che sostituisce l'amicizia alla politica e si dedica alla ricerca della verità usando, come i primi filosofi greci, un linguaggio poetico arcaico e solenne.
Cicerone considera l'ozio, studio delle arti liberali e del pensiero filosofico, come una caratteristica dell'uomo libero che ne fa strumento di impegno civile e politico. Scipione l'Africano, che nel De re publica rappresentava il modello di intellettuale e capo politico illuminato che non si era mai abbandonato all'otium, in quanto « anche nel tempo libero Scipione pensava agli affari pubblici », nel De officiis Cicerone lo mette a confronto con la sua condizione di forzata assenza dall'attività politica, da un impegno che egli ha allora trasfuso in quell'otium intellettuale che gli ha permesso la produzione di un'ampia opera filosofica: « Ma né il mio tempo libero né la mia solitudine sono da paragonarsi a quelli dell'Africano. Lui si prendeva ogni tanto del tempo libero per riposare dagli splendidi servigi prestati alla città, e lasciava talvolta la compagnia degli uomini per ritirarsi nella solitudine come in un porto; invece il mio tempo libero è nato non dal bisogno di riposo, ma dalla mancanza di impiego io invece, che non ho altrettanta capacità di astrarmi dalla solitudine in un pensiero silenzioso, ho dedicato tutta la mia cura e la mia attenzione a questo lavoro di scrittura. Ho dunque scritto di più in questo breve tempo da che lo stato è crollato, che non nei molti anni in cui era in piedi.»
Una scelta simile a quella di Cicerone, ma senza auto compatimenti e rimpianti, sembra essere quella di Sallustio (86 a.C.-35 a.C.) « Ma io nel principio, da adolescente, così come la gran parte, fui trascinato dalla passione per lo stato, e allora ebbi molte delusioni. Infatti al posto del rispetto, del disinteresse e del merito, vigevano la sfrontatezza, l'avidità e la corruzione...Allora, quando il mio animo trovò sollievo dopo sventure e pericoli, e decisi che il resto della vita l'avrei trascorso lontano dalla politica, non fu mia intenzione di lasciar consumare il tempo nella pigrizia e nella inoperosità, ma neppure trascorrere il resto della vita intento alla coltivazione dei campi, alla caccia, o a lavori umili; ma, ritornato alla primitiva occupazione, ossia lo studio, dal quale la nefasta ambizione politica mi aveva allontanato, decisi di scrivere i fatti storici di Roma... »
Ormai in età imperiale anche il poeta satirico Giovenale è critico con la tendenza dei suoi contemporanei ad interessarsi soltanto al tempo libero da dedicare agli spettacoli del circo, coniando la famosa espressione "panem et circenses". Ormai l'ozio aveva cessato di essere un privilegio per le classi dominanti, divenendo accessibile anche ai più poveri, foraggiati dalle distribuzioni alimentari gratuite. « Il popolo romano non si cura più di niente: una volta distribuiva pieni poteri, fasci, legioni, tutto; ora non si interessa più e desidera ansioso solo due cose: pane e giochi »
Il primo ad occuparsi in modo articolato e completo dell'ozio fu il filosofo romano Lucio Anneo Seneca nei due dialoghi De brevitate vitaee De otio. Secondo il suo schema di pensiero, l'ozio sarebbe da intendersi come sinonimo di vita ritirata, a cui l'uomo saggio dovrebbe necessariamente votarsi per non vivere in una società corrotta. « Quando lo stato è corrotto oltre ogni rimedio, se è nelle mani dei malvagi, il saggio si risparmierà sforzi inutili e non si sacrificherà nella previsione di non conseguire alcun risultato. »
A questo punto allora l'otium per il saggio diventa una necessità: « Se vorrò passare in rassegna gli stati ad uno ad uno, non ne troverò nessuno che possa tollerare il saggio o essere da lui tollerato. E se non si trova quello stato che immaginiamo, il ritiro viene ad essere una necessità per tutti »
Con il cristianesimo la considerazione dell'ozio subisce una svalutazione tale che nella teologia morale l'ozio viene considerato come una trascuratezza dei propri doveri, la cui gravità dipende dall'importanza di ciò che non è stato fatto. In quest'ultima accezione nel cattolicesimo si parla di accidia, cioè dell'indolenza ad operare il bene, considerata come uno dei sette vizi capitali. Il giudizio sulla negatività dell'ozio diviene particolarmente evidente con la riforma protestante, quando si afferma l'idea della sacralità del lavoro che, quando genera buoni frutti, offre al credente la prova della benevolenza divina nei suoi confronti. Ancora una volta dell'ozio si appropriarono le classi dominanti come nella Gran Bretagna del XVIII e XIX secolo. Una vera e propria teorica dell'ozio è elaborata dal pensatore inglese Bertrand Russell, nel saggio Elogio dell'ozio, in cui pone enfasi sull'importanza del sapere inutile rispetto a quello pratico. Saranno infatti proprio questi "oziosi", che si contrapponevano ad una moltitudine di salariati senza tempo a disposizione, a creare nuovi orizzonti per la scienza, per la letteratura e per la cultura in generale.
Paul Lafargue Una singolare concezione dell'ozio è quella elaborata dal genero di Karl Marx, Paul Lafargue, che era stato discepolo di Proudhon e fondatore con Jules Guesde del Partito operaio francese. Nel suo pamphlet Il diritto all'ozio pubblicato nel 1880 Lafargue si oppone nettamente alla visione del marxismo che considerava il lavoro come massima espressione dell'uomo e strumento di rivendicazione e riscossa sociale. Al contrario: « O Ozio, abbi pietà della nostra lunga miseria! O Ozio, padre delle arti e delle nobili virtù, sii il balsamo delle angosce umane! » poiché è proprio il lavoro che avvilisce l'umanità, così che « Se, sradicando dal suo cuore il vizio che la domina e ne avvilisce la natura, la classe operaia si levasse con la sua forza terribile non per reclamare i Diritti dell'uomo, che altro non sono che i diritti dello sfruttamento, non per reclamare il Diritto al lavoro, che altro non è se non il diritto alla miseria, ma per forgiare una legge bronzea che proibisse a ognuno di lavorare più di tre ore al giorno, la Terra, la vecchia Terra, fremente di gioia, sentirebbe un nuovo universo nascere in sé...»